... U CAMPETTU!
Quante partite giocate in quello
spiazzo di terra, quanti ricordi, venti e più anni fa…
Il profumo
dell’estate arriva già da maggio, quando la primavera libera il suo
spirito e lancia presagi di vitalità troppo sopita dalla rigidità dei
mesi invernali. Vent’anni fa e più era così, e vent’anni fa e più maggio
significava quasi la fine della scuola, e quindi le vacanze, che
iniziavano immancabilmente a giugno, con l’avvento delle prime ciliegie.
Uno dei maggiori godimenti di quel periodo era mangiarne fino a dire
basta: dolci, grandi e soprattutto rosse, le ciliegie erano il frutto
proibito per eccellenza, perché coglierle significava arrampicarsi
sull’albero. Una volta accucciati in cima, beh,
poteva anche arrivare il finimondo, scatenarsi il più terribile
acquazzone o un’altra catastrofe: si restava lì, in pace con il proprio
stomaco e soprattutto con il mondo. Una classica di quel periodo era poi la partita di pallone al
Campetto, quello spazio di terra racchiuso tra due porte di legno
sgangherate che con la benevolenza dei Padri Minimi rappresentava l’unico
vero divertimento del posto. Era lì, al Campetto, che da ragazzini
facevamo le partite, sfidandoci fino alla morte ad inseguire un pallone e
a emulare i miti del nostro calcio, ancora indenni da valanghe monetarie
che avrebbero rovinato lo sport più bello del mondo. Se durante l’inverno
il Campetto era frequentato al massimo il sabato e la domenica, durante
l’estate non passava giorno che non si
“timbrasse il cartellino” lì, facendo attenzione a non giocare durante le
funzioni religiose, che, anzi, erano frequentate con assiduità proprio
perché si confidava nella sicura ricompensa, quella di un campo di gioco
disponibile per il resto della giornata. Anche le partite, nel loro
piccolo, subivano il fascino della frutta… Come? Chiedetelo all’albero di
prugne che qualche anima pia aveva piantato
dietro la porta ’e sutta, cioè quella più vicina a Casal di Basso
(l’altra era ovviamente ‘a porta e supra, ed era quella più vicina a Calendini). Chi scrive ricorda di una porta, proprio
quella più vicina al pruno,
lasciata incustodita nel corso di una partita, semplicemente perché
l’incauto titolare aveva deciso che fosse più
prolifico dedicarsi a soddisfare il proprio stomaco che difendere gli
immaginari colori della propria squadra. Giocare a pallone era il
diversivo più grande, ma anche un must per chi
come noi aveva tanta birra in corpo e voglia di dimostrare ai coetanei di
essere il più forte. Eravamo bambini, di una ingenuità
decisamente selvaggia, ma allo stesso tempo tenerissima: non immaginavamo
che il mondo fosse altro, e soprattutto eravamo convinti che tutto
potesse essere possibile, come fare gol direttamente dalla propria
difesa.
Luigi Caputo
Leggi anche:
I percorsi della memoria
|