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... U CAMPETTU!

Estate 1983_Campetto

Estate 1983: ricordo di una delle tante partite al Campetto.

Quante partite giocate in quello spiazzo di terra, quanti ricordi, venti e più anni fa…
 

Il profumo dell’estate arriva già da maggio, quando la primavera libera il suo spirito e lancia presagi di vitalità troppo sopita dalla rigidità dei mesi invernali. Vent’anni fa e più era così, e vent’anni fa e più maggio significava quasi la fine della scuola, e quindi le vacanze, che iniziavano immancabilmente a giugno, con l’avvento delle prime ciliegie. Uno dei maggiori godimenti di quel periodo era mangiarne fino a dire basta: dolci, grandi e soprattutto rosse, le ciliegie erano il frutto proibito per eccellenza, perché coglierle significava arrampicarsi sull’albero. Una volta accucciati in cima, beh, poteva anche arrivare il finimondo, scatenarsi il più terribile acquazzone o un’altra catastrofe: si restava lì, in pace con il proprio stomaco e soprattutto con il mondo. Una classica di quel periodo era poi la partita di pallone al Campetto, quello spazio di terra racchiuso tra due porte di legno sgangherate che con la benevolenza dei Padri Minimi rappresentava l’unico vero divertimento del posto. Era lì, al Campetto, che da ragazzini facevamo le partite, sfidandoci fino alla morte ad inseguire un pallone e a emulare i miti del nostro calcio, ancora indenni da valanghe monetarie che avrebbero rovinato lo sport più bello del mondo. Se durante l’inverno il Campetto era frequentato al massimo il sabato e la domenica, durante l’estate non passava giorno che non si “timbrasse il cartellino” lì, facendo attenzione a non giocare durante le funzioni religiose, che, anzi, erano frequentate con assiduità proprio perché si confidava nella sicura ricompensa, quella di un campo di gioco disponibile per il resto della giornata. Anche le partite, nel loro piccolo, subivano il fascino della frutta… Come? Chiedetelo all’albero di prugne che qualche anima pia aveva piantato dietro la porta ’e sutta, cioè quella più vicina a Casal di Basso (l’altra era ovviamente ‘a porta e supra, ed era quella più vicina a Calendini). Chi scrive ricorda di una porta, proprio quella più vicina al pruno, lasciata incustodita nel corso di una partita, semplicemente perché l’incauto titolare aveva deciso che fosse più prolifico dedicarsi a soddisfare il proprio stomaco che difendere gli immaginari colori della propria squadra. Giocare a pallone era il diversivo più grande, ma anche un must per chi come noi aveva tanta birra in corpo e voglia di dimostrare ai coetanei di essere il più forte. Eravamo bambini, di una ingenuità decisamente selvaggia, ma allo stesso tempo tenerissima: non immaginavamo che il mondo fosse altro, e soprattutto eravamo convinti che tutto potesse essere possibile, come fare gol direttamente dalla propria difesa.            

Luigi Caputo

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