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IL PORTALE DELLA COMUNITA'
PATERNESE NEL MONDO |
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IL RITO DEL MAIALE
Cronistoria di quella che in passato era una festa per l'intera civiltà contadina
Quello del maiale è senza dubbio uno dei riti che si inseriscono appieno nel novero
delle tradizioni classiche della civiltà contadina, in voga a Paterno e a moltissimi altri
centri piccoli e grandi. Possiamo anzi ritenere che la locuzione dialettale usata (fare 'u
porcu) per indicare la macellazione del maiale per uso familiare sia diretta
discendente di quel fàcere usato dai Latini per indicare il sacrificio del medesimo
animale in onore dei Lari, i geni tutelari della casa e della famiglia, fatti oggetto di
grande venerazione.
Per uccidere un maiale bisognava prima allevarlo: questa attività, a ben vedere,
poteva essere esercitata da ogni famiglia, considerati i costi relativamente bassi che
comportava, a fronte, poi, di un ritorno ben più redditizio con quanto se ne ricavava in
seguito all’uccisione dell’animale. Addirittura, considerata la numerosità di molte
famiglie, spesso il numero dei maiali allevati era superiore all’unità. Fino a qualche
decina di anni fa, ogni famiglia teneva il proprio maiale vicino a casa propria, o nel
magazzino adibito a porcile accanto alla propria abitazione (catoju) o in un recinto
costruito con quattro assi ed un po' di lamiera (zimma). Negli ultimi decenni, la giusta
imposizione di rigorose norme igieniche decretate dalla collettività ha stabilito la
locazione dell'allevamento suino per uso familiare solo in campagna, o comunque in
zone lontane dal centro abitato.
Al maiale allevato venivano offerti come sostentamento gli avanzi del cibo,
solitamente sciolti nell’acqua (vrudata), la crusca rimasta dalla sfarinatura dei cereali
(canigliata) e, specialmente nella fase conclusiva dell'attività svolta per far crescere
l'animale fino al completo sviluppo, le castagne trattate in vario modo, che peraltro
non mancavano in nessuna casa data la presenza degli estesi castagneti delle nostre
montagne. Il cibo da destinare al maiale era predisposto all’interno di un apposito
trogolo (scifu) realizzato per l’occasione utilizzando il legno degli alberi della zona.
Se tutto andava per il verso giusto, il maiale cresceva, fino ad ingrassarsi con il
passare dei mesi. Se questo invece non avveniva, e il maiale si ammalava o comunque
non ingrassava per quanto dovuto, si interveniva in due modalità: o con la
rarichicchja (il rizoma dell'elleboro nero) da infilare in un taglietto aperto
nell'orecchio dell’animale, o con il suo capponamento, operato dall’esperto (il
cosiddetto grastature), che col taglio del suo coltello affilato rimediava prontamente
allo svantaggio, cercando di far recuperare peso al povero animale.
L’uccisione del maiale
Il giorno stabilito per l’uccisione del maiale cadeva solitamente nei mesi di gennaio o
febbraio, ma, più generalmente, in una fascia di tempo a partire dal giorno di S.
Stefano (26 dicembre) e fino alla domenica di Carnevale. Come tutti i riti, anche
quello del maiale richiedeva la massima importanza da parte del nucleo familiare
interessato: la data era stabilita con un certo anticipo, e poteva prevedere anche una
serie di calcoli legati alla posizione della luna (che, per auspicare la buona riuscita
delle operazioni, doveva essere in fase calante), e, in corrispondenza di quei giorni,
tutte le altre attività, comprese la scuola dei ragazzi o il lavoro degli adulti, venivano
sospese. Anziani e adulti, uomini e donne, predisponevano tutto l'occorrente adatto
alla bisogna, a partire dalla grande madia (maìlla), nella quale per mezzo dell'acqua
bollente si sarebbe dovuto rasare il maiale ucciso per privarlo delle setole (queste
ultime, secondo quanto riporta lo storico Gerardo Giraldi, non si sarebbero gettate
via, ma tenute da parte per darle al calzolaio amico che usava nettarle in cima allo
spago impeciato con cui cuciva la tomaia alla suola, e che non avrebbe mancato di
contraccambiare il regalo a suo tempo con un paio di mezze suole gratuite). C’erano
poi, oltre ai coltelli di varie misure e forme, i contenitori dalla forma e dall’uso
particolare: gli imbuti con cui riempire di carne gli intestini dell'animale e farne
salsicce e soppressate, i pignatelli da riempire con lo strutto e i vasi (sauaturi) per la
carne salata, che dovevano essere lavati accuratamente con la uessìa, un miscuglio
costituito da acqua calda e cenere di legna.
Generalmente, il maiale veniva ucciso di mattina presto, onde avere a disposizione
tutto il resto della giornata per il disbrigo delle altre attività connesse a questa
operazione. L’animale veniva prelevato dal suo luogo di ricovero e portato in uno
spiazzo all'aperto: qui, lo si legava ad un ramo biforcuto (‘mpennituru) e lo si
uccideva: l’operazione non era affatto agevole, poiché l’animale, intuendo il pericolo,
esercitava ogni possibile resistenza, e la sua mole non era divenuta certo trascurabile.
Durante l’operazione, mentre gli uomini erano intenti a tenere ferma la povera bestia,
vi era generalmente una donna che si preoccupava di raccoglierne il sangue in un
contenitore, rimescolandolo ben bene, e destinandolo poi alla preparazione del
sanguinaccio che avrebbe allietato grandi e piccini. Sempre dall’attento Giraldi
rileviamo che solitamente la pinna del fegato avvolta nell'omento o la longa del
filetto, considerate le parti più pregiate, venivano recapitate in dono quale stimanza
alle persone di un certo riguardo che non avevano l'obbligo della restituzione; al
contrario tale obbligo esisteva per i parenti e gli amici che avessero ricevuto il
medesimo dono.
Le frìttue
Una volta morto, il maiale veniva pesato con l'apposita stadera (statìua), quindi
spaccato in due e portato a casa del proprietario, nel luogo destinato alla
macellazione. Qui, solitamente il giorno dopo, per dare alla carne tutto il tempo per
raffreddarsi e consolidarsi per i molteplici usi cui era destinata, aveva inizio
l’operazione più delicata, la cosiddetta spazzunàtura: il corpo dell’animale veniva
sezionato in modo puntuale e dettagliato, in modo da separare una ad una ogni singola
parte, da utilizzare per gli usi opportuni. L’operazione vedeva la presenza di esperti
artigiani dell’anatomia suina: se in casa non vi erano persone con questa esperienza, si
provvedeva a chiamare l’esperto, che, oltre all’invito alla degustazione delle frìttue,
sarebbe stato ricompensato adeguatamente in natura con parti dell’animale appena
trattate. Mentre l’attività di sezionamento era in corso, altri provvedevano a preparare
l'enorme caldaia (quadàra), che era stata realizzata con molta probabilità da un
maestro dipignanese e che sarebbe stata destinata ad ospitare la carne da cuocere
successivamente. Onde confermare il carattere prettamente popolare, a metà tra il
religioso e il superstizioso, della cosa, ad uno dei manici della quadara veniva
attaccata una piccola croce di legno, in modo da far sì che essa salvaguardasse il
prezioso contenuto e favorisse la quantità e la buona qualità dell’operazione. Intanto
che la caldaia bolliva allegramente sul fuoco tenuto costantemente acceso, si
diramavano gli inviti ai parenti ed. agli amici per sollecitare la loro partecipazione al
banchetto che avrebbe avuto luogo all'atto della levata del grande recipiente dal
fuoco, previa raccolta dello strutto che nel frattempo si sarebbe depositato candido e
profumato sulla superficie della massa gelatinosa contenuta in esso.
Giunta l'ora stabilita, gli invitati affluivano allegri e contenti e, dopo i convenevoli di
uso in simili circostanze, prendevano posto al grande tavolo della cucina e si
apprestavano a consumare le succulente frittue, che erano state preparate con pezzi di
carne, orecchie, zampe, grugno e lardo, nonché con le cotiche del maiale, bollite a
lungo nel grasso. La tradizione prevedeva che le frittue fossero servite a tavola con le
verze (cappucci) e la scarola. Il tutto veniva ovviamente accompagnato con pane
miglino dal caratteristico colore giallo, e innaffiato in abbondanza con il vino che era
stato prodotto in quella casa e che il capofamiglia generoso ed ospitale, da raffinato
anfritrione, non faceva mai mancare nei bicchieri dei presenti. Il banchetto si
prolungava a lungo tra gli scherzi rumorosi, i brindisi augurali, i motteggi ed i salaci
commenti agli immancabili episodi di cronaca paesana, mentre il grosso ceppo
scoppiettava allegramente nel largo camino e la padrona di casa si faceva in quattro
perché nulla mancasse sulla tavola.
La lavorazione delle carni
Il giorno seguente, di buon’ora, si provvedeva alla scelta dei pezzi di carne da
destinare alla preparazione dei salumi. Ciascun pezzo veniva salato a dovere, pepato
ed impastato adeguatamente. Lo storico Gerardo Giraldi ricorda che prima di iniziare
a riempire gli intestini dell'animale con la carne preparata a questo scopo (le budella
erano già pronte per essere state attentamente ripulite con acqua e aceto), si
prendeva un pugnello di carne tritata, il cosiddetto provatùru, e lo si
cuoceva sul fuoco per saggiare la giusta distribuzione del sale e del pepe
nell'impasto.
I tipi di salame che si riuscivano a ricavare dal maiale macellato comprendevano
anzitutto il prosciutto ('u prisuttu) e la salsiccia ('a sazizza): il primo era fatto con
la coscia del maiale, salata per quaranta giorni, pepata e messa ad asciugare al fumo
del focolare domestico o all'aria. La salsiccia, invece, era confezionata con la carne
tagliuzzata, impastata con pepe, sale e semi di finocchio selvatico ed insaccata nelle
budella più strette dell'animale ucciso. Ancora Giraldi ci ricorda che il salame
migliore, in quanto più ricco di sugo, oltre che di più facile conservazione, era quello
che veniva preparato con l'intestino retto del maiale, volgarmente detto cùarìnu.
La salsiccia veniva stretta ogni dieci o dodici centimetri, a volte anche di più, con
dello spago, in maniera da ottenere cinque o sei rocchi indipendenti l'uno dall'altro e
che assieme formavano come una lunga collana detta cullùra. C’era poi il ballo
(o capeccollu), che si otteneva utilizzando un pezzo di carne bislungo tagliato dalla
regione dorsale della bestia, proprio vicino al collo ed avvolgendolo nella vescica
della stessa, e che veniva poi salato e pepato in giusta misura, e, dopo essere stato
legato tutt'intorno strettamente con lo spago, veniva appeso al fumo del camino o in
ambiente bene arieggiato, affinché potesse asciugarsi ben bene. E ancora: la
soppressata (o supressàta), prodotta con carne magra e grassa in misura adeguata,
trinciata, salata, pepata ed insaccata nell'ultima parte dell'intestino del maiale. Bene
stretta dallo spago che l'avvolgeva, veniva posta sotto il peso di una grossa pietra
detta suppressu (da cui il nome), perché diventasse tanto compatta da potersi
mantenere a lungo senza alterarsi. Anche per la soppressata si utilizzava la parte
terminale dell'intestino dell'animale e con ottimi risultati ai fini della conservazione e
del sapore. Alla soppressata più grossa della serie, infine, che normalmente si
conservava nello strutto, si dava il curioso nome di orva o supressatùne (soppressata
molto grossa). Un altro tipo di salsiccia era quella di fegato('e ficatu): si usava
confezionarla col medesimo procedimento seguito per la preparazione della salsiccia,
ma utilizzando il fegato dell'animale insieme con poca carne, magra e grassa,
debitamente trinciata ed aggiungendo poi un po' di aglio e del prezzemolo. La
pancetta (’a panzarella) veniva invece ricavata, come si deduce dal nome, dal
ventre dell'animale tagliato a grandi pezzi, che, dopo essere stati salati e ricoperti di
pepe rosso, erano messi ad asciugare all'aria o al fumo del camino. C’era poi la
giogaia (vujjuàru), e per prepararla si adoperava la parte del maiale che dalla gola
arriva al petto e caratterizzata da numerose pieghe; si salava, si cospargeva di pepe e
si lasciava asciugare. Curioso il nome dato alla gelatina (sùzu), la cui preparazione
prevedeva l’utilizzo delle zampe, della cotenna, della costata e della testa
dell'animale, con l'aggiunta di carne magra: il tutto veniva solidificato mediante
raffreddamento e con dell'aceto, e si aromatizzava con alcune foglie di lauro. C’erano
poi i ciccioli (a Paterno frìsui, nel cosentino scarafuogli), ovvero quei pezzetti di
carne di maiale sciolti al calore del fuoco nella caldaia, dopo che se ne era cavato lo
strutto, che, se cotti a dovere, erano gustosi e sostanziosi. Proseguendo, si otteneva la
cosiddetta carne salata (carne 'ncantaràta), che era costituita dalla cotenna e dalla
costata del suino poste sotto sale negli speciali contenitori di argilla di forma
cilindrica, i garretti (garrùni), preparati con i garretti dei maiale riempiti con la
carne rimasta dalla lavorazione delle soppressate e cuciti tomo tomo con lo spago, in
maniera da ottenere qualcosa come delle borsette da donna. Si conservavano affogati
nello strutto e quando venivano messi in tavola con fave o piselli rivelavano tutto il
loro profumo ed il sapore gradevolissimo. C’era poi lo strutto ( ‘u grassu), che si
ricavava dalla bollitura in acqua delle parti grasse del maiale e si conservava nei
contenitori di creta panciuti e dalla bocca larga (pidànni) o nella vescica (vissìca)
del medesimo animale. Ancora Giraldi ci ricorda che proprio lo strutto un tempo era
usato largamente nella comunità locale in sostituzione dell'olio d'oliva, lo è molto
meno oggi perché mal tollerato dagli stomaci delicati delle attuali generazioni. Per
addolcire il palato di grandi e piccini, si preparava poi il sanguinaccio (‘u sangu),
che si otteneva cuocendo addirittura il sangue dell'animale con il curioso
procedimento detto bagnomaria (la cui invenzione pare si debba nientemeno che
alla sorella di Mosè che esercitava l'alchimìa), con l'aggiunta di miele di api o di fichi
bolliti e, per i palati più raffinati, di latte, cioccolato, pinoli, uva passa, zucchero,
cannella, gherigli di noci tagliuzzati, oltre ad alcuni pezzetti di buccia di arancia.
Lu. Ca.
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